Domenico Di Virgilio
Blues musica della lontananza
 
  I’m a stranger here, just blowed in your town
I’m a stranger here, just blowed in your town
Just because I’ m a stranger everybody wants to dog me ‘round
(new stranger’s blues)
 
     

“... tutto è linguaggio, niente sfugge al linguaggio, l’intera società è traversata, penetrata dal linguaggio. Pertanto, in un certo senso, tutto è culturale, ed è impossibile praticare una non cultura. La cultura è una fatalità a cui siamo condannati. Così, condurre una radicale azione contro-culturale è semplicemente spostare il linguaggio, e, di nuovo, se non si sta in guardia, far leva su stereotipi, quindi su frammenti di linguaggio già esistenti.”1

Per chi studia le musiche di tradizione orale una iniziativa come questo CD è l’occasione per farsi e fare delle domande, un tentativo di capire perché quando si perde il proprio mezzo espressivo (come si è ormai quasi completamente perso il senso principale del folklore in Abruzzo, ed in Italia, e per ovvi motivi socio-culturali) si sceglie qualcosa di apparentemente diverso che però nasconde anch’esso un passato autenticamente popolare, come è il caso, appunto, del blues.

Si comincia col chiedersi i perché di questa scelta, che nessuno vorrebbe superficiale, di maniera, tantomeno chi suona e desidera esprimere qualcosa; e i perché dell’adozione di un linguaggio espressivo già in origine fortemente connotato. Scelta che ha o dovrebbe avere sempre dietro di se degli interrogativi, domande che soprattutto i diretti interessati dovrebbero porsi (e se chi suona si interroga non è certo per trovare risposte, trovarle significherebbe infatti trovare il silenzio). Scelta che ha in origine una questione vecchia e viva ancora oggi in tempi di musiche del mondo globale: una presbiopia culturale che, più o meno a riporto di mode, affligge sia i giovani che le persone mature e per cui anche un ‘alibi etnico’ , ben rilevava nel 1978 Diego Carpitella, serve a dare un sapore “popolare ‘progressista’ alle proprie composizioni. Mentre, magari, a poca distanza… esistono contadini e pastori che suonano una musica altrettanto ‘esotica’ con la loro poliritmia (le tarantelle o le tamurriate) e con i loro strumenti altrettanto etnologici (la zampogna, le launeddas o la chitarra battente). Ma non basta: forme asimmetriche, accentuazioni irregolari, scale ditoniche, tritoniche, tetracordali, pentatoniche, eterofonia, poliritmia ecc. Naturalmente tutti tratti stilistici che non si trovano subito all’angolo di casa, ma che si rinvengono con una indagine cauta e paziente, che riesce a collocare i documenti nella ‘memoria’ collettiva, sia funzionale che ormai definitivamente memorizzata.”2. Ribadiamo questo oggi che è diminuita l’opportunità di ascoltare gli originali del nostro folklore (anche per chi fa paziente ricerca) ma aumentato considerevolmente il numero delle raccolte registrate.

Sul blues poi si è scritto moltissimo, migliaia di pubblicazioni ci informano su tutto o quasi quello che bisogna conoscere se si è un musicista, o un musicologo, o un cultore. Si può aggiungere qualcosa, ma è sempre più difficile, o scegliere da questa massa di informazioni alcuni punti di attenzione, scegliere alcune domande da farsi e da fare per iniziare un dialogo, una ‘ecologia dell’ascolto’ 3, ascoltare ciò che dicono gli altri, tornare al senso delle cose: “the blues is a thing deeper than what you’d call a mood today. Like the spirituals, it began with the Negro, it involves our history, where we came from, and what we experienced. The blues came from the man farthest down. The blues came from nothingness, from want, from desire. And when a man sang or played the blues, a small part of the want was satisfied from the music. The blues go back to slavery, to longing. My father, who was a preacher, used to cry every time he heard someone sing ‘Ill see you on the judgment day’. When I asked him why, he said – that’s the song they sang when your uncle was sold into slavery in Arkansas.”4

Cambiato orizzonte antropologico il confronto con una realtà in mutamento sempre più veloce ci spinge ad allontanare la ricerca “dalle descrizioni ad alta risoluzione ma statiche di questo o quel popolo, in questo o quel luogo, che vive in questo o quel modo, per volgerla invece verso disarticolati, ‘decentrati’ resoconti di popoli, modi di vita, e prodotti culturali in movimento che viaggiano, si mescolano, improvvisano, collidono, lottano per esprimersi e dominare.”.5

Nascono spazi, eventi, luoghi o contesti dove si creano possibilità di scelta e simbiosi di nuove sensibilità, come potrebbero nascere nell’entroterra abruzzese (dove, per quello che ne so io, più fioriscono i festival estivi), nella provincia che alla riproduzione/conoscenza potrebbe sostituire il coraggio dell’esperimento.

Il mediterraneo, tra l’altro, è stato sempre, d’elezione, ‘zona di contatto’ 6 ; e l’Abruzzo, da terra di passaggio, conserva innumerevoli lasciti. Qualcosa del genere è già avvenuto qualche anno fa nella nuova canzone napoletana, dice Roberto De Simone:”…Pino Daniele … con la sua produzione tende a porsi come espressione del malessere dei giovani napoletani. Egli appare infatti teso al recupero e all’esaltazione del fonema dialettale nei caratteri che assume nel linguaggio dei quartieri più popolari ed emarginati e, sovrapponendo al dialetto napoletano i moduli blues, lo assume come indice di un parallelismo tra cultura napoletana ed afroamericana (insomma, come espressione di una negritudine napoletana, contrassegnata da identico malessere sociale).”7. Ma d’altro canto l’etnomusicologo Giorgio Adamo sottolinea l’uso contraddittorio di moduli musicali derivati dalla tradizione rock blues, moduli che possono considerarsi ormai vicini ai giovani italiani ma che comunque rimandano a contesti di tradizione orale (il blues ed il jazz come la nostra cultura folklorica) da cui questi giovani sono ormai ‘culturalmente’ lontani.8

Vogliamo allora l’ibridazione ma tendiamo nei fatti alla conservazione? Siamo solo dei nostalgici delle ciaramelle e dei bottle neck o pensiamo sia possibile coniugarli anche con il computer e la registrazione digitale? Il blues vuole rimpiazzare un bisogno di musica e di canto lasciato aperto dalla scomparsa della società contadina prima, poi dal tramonto delle bande?

Nei centri più piccoli tutt’ora la tradizione eurocolta è poco accessibile e offre poche o nessuna opportunità, i media fanno il resto. Il blues diventa forse il passe-partout per ogni scontento, come ne è diventato emblema globale a tutte le latitudini?

Gli shouts, i field hollers erano grida, ritmi che scandivano il lavoro e la vita quotidiana, segni di una condizione esistenziale inesorabilmente legata alla lontananza: rabbia, frustrazione, amarezza, disperazione (ma anche ironia nei confronti della sorte e del padrone). Lontananza da se stessi, quella stessa ‘crisi della presenza’ di cui parla Ernesto De Martino a proposito delle ‘plebi meridionali’ , l’impossibilità di scelta, “…l’esperienza di un divenire che passa senza e contro di noi.”10. Il blues divenne poi la forma creativa più organicamente legata alle esigenze socio culturali delle masse nere, sia rurali che urbane, fino agli anni '60 quando si intrecciò con il jazz e la protesta. Ma già era protesta: il blues come qualunque altro documento folklorico è contestativo già nel suo essere, poiché i dati che lo configurano stilisticamente sono la reale espressione di una condizione esistenziale. Il blues era il risultato di “un viaggio psicologico e sociale in terra americana, il negro – attraverso sottili mutamenti acculturativi – creava delle premesse per una sua ambientazione espressiva passando dalle forme musicali africane AB (responsoriali tra un solista e un coro) a quelle AAB, di dodici battute del primo blues. … E’ attraverso queste sfumature sociologiche e psicologiche che il blues si configura stilisticamente; il che vuol dire non solo melodia, ma timbro, emissione di voce, tipo di off beat, tecniche vocali, dimensioni del complesso.”13. Nell’off beat Diego Carpitella individua una dei maggiori dati culturali della musica afroamericana e un elemento di ‘contestazione’: “Ora non si può che rilevare che il dualismo ritmico del jazz trae origine dai precedenti rituali di questa musica: poiché rituali erano le musiche africane del Dahomey, della Costa d’Avorio e d’Oro, approdate nel Nuovo Mondo nel XVI secolo. In queste musiche rituali il beat era il controllo del rito, mentre l’off-beat era l’esasperazione fino al parossismo della crisi esistenziale.” 14. Ambiguità ritmiche lontane dalla tradizione eurocolta e presenti anche nel nostro folklore strumentale (l’organetto) con la coesistenza di moduli binari e ternari (hemiola). Ambiguità, che diventa metafora di un non-luogo esistenziale, di una lontananza, appunto, come anche con le ‘blue notes’, dove si annulla la distinzione maggiore-minore. Il dato linguistico/significante della contestazione è il suono: il suono aspro, sporco, la vocalità urlata, di gola, gli intervalli non temperati, i portamenti e melismi che sono la norma tra un intervallo e l’altro, lo stile strumentale, che non è che prolungamento della voce, nel blues come nel nostro folklore musicale16. E con il suono è il dialetto a veicolare, nella tradizione orale, la cultura di un popolo. I documenti raccontati o cantati in dialetto illustrano la prospettiva che della vita quotidiana hanno le classi popolari:

scura mai scura mai ma lassàte na famiie
tu ssu morti nghi dda faccie scalza niuda appetitàusa
mo mi stracci traccie e faccie nghi’nd’appena ci riveie
mo mi iette nghuozz’a ttaie vuole le pane i ni l’aie
scura maie scura maie scura maie scura maie 17

Il blues come espressione di una minoranza, sia rurale che urbana, degli uomini e delle donne della ‘black working class’ è ormai scomparso così come sta scomparendo inevitabilmente il nostro folklore. Ma da un mondo che scompare è possibile trarre un’altra possibilità antagonista? E’ possibile un blues per cui il Delta è qui in quanto il folklore non si ferma al revival ma diventa espressione di un progetto di vita?

Perché forse è ancora possibile esprimere una concezione del mondo lontana dalle pagine patinate e dalle scorciatoie. Se in passato "Il giovane intellettuale o artista o bohémien bianco … stabilì una sorta di identificazione con il negro cercando, con vario successo, di trarre qualche arricchimento emozionale dalla somiglianza delle due posizioni nella società." 18, ora archiviando il ribellismo individuale di chi non nasce più nel blues senza possibilità di scelta:

Quanda ta fatti bbell la tua mamma
e quanda ta fatti bbell la tua mamma
mo t’a mannat’a cocir’ a lu sole 19

si può sceglierlo perché sia assieme la risposta ad alcune esigenze espressive ed anche un tentativo di uscire dal grigiore della provincia alle luci del varietà.

 
 
 
 

Note

1 R. Barthes, Fatalità della cultura, limite della contro-cultura, pagg. 146-152 in  La grana della voce, Einaudi, Torino 1986, pag. 149.

2 Carpitella D., Le false ideologie sul folclore musicale, pagg. 209-239 in D.Carpitella, G.Castaldo,G.Pintor,A.Portelli, M.L.Straniero, La musica in Italia, Savelli Roma 1978, pag. 233.

3 “il cammino individuale che ciascuno di noi può compiere nel pulire la mente … liberare l’orecchio dalle incrostazioni, ripararlo e restaurarlo dall’assordamento … pulire la mente dunque vuol dire imparare a fare il vuoto dentro, lasciare spazio all’altro che non si conosce.”(S.Sciarrino, Diario parigino, appunti per un, pagg.28-35 in Avidi Lumi, anno V-12,giugno 2001.

4 W.C.Handy, cit. in N.Shapiro, N.Hentoff, Hear me talkin’ to you, Dover Pub., New York 1966.

5 C.Geertz, Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna 2001, pag.136.

6 Per la definizione di ‘zona di contatto’ cfr. C.Geertz, cit. pag.136.

7 R.De Simone, Appunti per una disordinata storia della canzone napoletana, pag. 37 in Culture musicali 3/1983.

8 “i musicisti jazz, anche se nati nel Mediterraneo, sono culturalmente lontani dalle musiche di tradizione orale: non è la stessa cosa, infatti, entusiasmarsi all’ascolto di un disco, e crescere dentro una tradizione. In questo senso i livelli di separazione culturale raggiunti in Italia negli ultimi trent’anni tra città e campagne e tra le generazioni, con la disgregazione delle comunità agro-pastorali e la diffusione dei mass media, sono in grado, a mio avviso, di creare una lontananza anche maggiore di quella dell’afroamericano dall’Africa.” (G. Adamo, Nota etnomusicologica, pagg. 47-50, in G.Adamo, S.G.Biamonte,L.Bonifazi,P.Damiani,C.Lo Cascio, A.Fazzoletti, F.Pecori, M.Piras, A. Profeta, A. Rodriguez, G. Salvatore, R. Santoli, D.Soutif,G.Trovasi, Jazz e cultura mediterranea, Gangemi ed. Roma 1985. pag.49.

10 E.De Martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri, Torino 1975, pag. 18.

13 D. Carpitella, Conversazioni sulla musica, Ponte alle Grazie, Firenze 1992, pag. 75

14 D. Carpitella, cit. pag. 191.

16 Cfr. D.Di Virgilio, La musica di tradizione orale in Abruzzo, Quaderni di Rivista Abruzzese, Lanciano 2000.

17 Questo documento è già una formalizzazione semicolta. E’ un lamento funebre molto conosciuto e diffuso in varie zone dell’Abruzzo, ed elenca tutti i temi della lamentazione: il venir meno dell’aiuto economico, i figli che chiedono il cibo, la perdita della casa, l’indifferenza della gente e dei conoscenti. E’ stato registrato da Alan Lomax durante una campagna di ricerche che lo portò (insieme a Diego Carpitella) a raccogliere numerosi ed interessanti documenti in varie località abruzzesi (cfr. CD, Italian treasury-Abruzzo, the Alan Lomax Collection, Rounder Records 2001, a cura di G.Plastino, A. Gandolfi, D.Di Virgilio).

18 L.Jones, Il popolo del blues,  Einaudi, Torino 1968, pag..228.

19 Canto di mietitura, in  D.Di Virgilio, cit. pag.179.

 
 
 
 

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